SorrisoDiverso

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Di Aura Pammer
Recentemente, tra una vacanza e l’altra, sono andata al cinema a vedere The Boss. Un film del 2016 diretto e scritto da Ben Falcone in collaborazione con Melissa McCarthy, la quale è anche la protagonista principale.
Premetto che ho un debole per il genere delle commedie, sia perché è possibile divertirsi vedendo questo tipo di film, sia perché, come per quasi ogni genere, tra le righe possiamo leggere una verità di fondo e vedere quindi la realtà sotto altri punti di vista. In tal modo, ognuno di noi può interpretarla in maniera diversa.
Torniamo però alla pellicola: Melissa McCarthy, simpatica e brava attrice, interpreta Michelle Darnell, donna proveniente da un difficile passato, caratterizzato da un via vai continuo tra casa famiglia e famiglie ospitanti, che avevano l’abitudine di riportarla sempre nel luogo di origine, perché non ritenuta ‘adeguata’.
Michelle, dopo le infinite delusioni dovute ai legami che provava a costruire, capisce che per lei sia meglio contare esclusivamente su sé stessa, non fidandosi e non confessando le proprie sofferenze ad altri. Inoltre, si concentra esclusivamente sul proprio percorso della carriera, fissando un unico obbiettivo, ovvero diventare ricca. Presto però la sua assistente ricorda a Melissa dell’aumento di stipendio promesso e mai ricevuto. Da qui iniziano i problemi. contemporaneamente il suo nemico giurato, nonché suo ex fidanzato, cerca in tutti i modi di sabotarla e grazie ad una dichiarazione alla polizia, riesce nel suo intento.
La donna, dopo aver passato del tempo in prigione, si ritrova senza fondi disponibili ed esclusa dal suo giro di ‘amici di un certo livello ’; decide quindi di andare a chiedere ospitalità ed aiuto alla sua ex assistente e sua figlia Rachel. Inizialmente viene respinta, ma poi accettata e accolta. Non avendo più un lavoro a cui pensare, decide di aiutare le bambine ‘scout’ della scuola di Rachel, le quali però la rifiutano, ritenendola una ex ‘galeotta’. Cosi Michelle, selezionando le alunne più ‘adeguate’, crea un proprio gruppo scout che cucinando e vendendo poi i propri dolci al cioccolato, riesce a guadagnare molto più del necessario. In poco tempo si viene a creare una vera e propria attività che si trasformerà poi in società.
In tutto questo Rachel, la sua mamma e Michelle legano molto, tanto che Michelle si spaventa e decide di allontanarsi subito, cedendo anche l’attività al proprio nemico giurato e guadagnando così una grande quantità di soldi. Presto però, Michelle si renderà conto che questo legame è stato il più forte e valido mai avuto con qualcuno e che ora non riesce più a farne a meno. Scusandosi con la sua nuova ‘famiglia’, che sembra riempirne il pieno significato, escogita un piano per riprendere la propria attività, che dopo una dura ‘battaglia’ riesce ad ottenere.
Da questo film ho tratto un insegnamento: molte volte nonostante la quantità di 0 dietro il proprio conto bancario, non si è soddisfatti, ma la famiglia riesce sempre a riempiere il cuore e donare emozioni. Una nota positiva è che la commedia risulta leggera e divertente, anche se forse a tratti troppo irrealistica e con dettagli che rendono poco.

Valutazione attuale: 4 / 5

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Di Eva Mazzone
La famiglia è la primissima forma di nucleo sociale dell’uomo. La sua funzione primaria è quella di rispecchiare la società, e, in caso di figli, costituisce il primo affaccio del bambino sul mondo, e l’esempio che plasmerà il suo essere adulto. Nella cultura occidentale una famiglia è definita come un gruppo di persone affiliate da legami di consanguineità e\o da legami acquisiti e riconosciuti dalla legge, come per esempio il matrimonio, l’unione civile e l’adozione. La teoria del filosofo greco Aristotele riguardo la famiglia è stata determinante nel pensiero occidentale. Il filosofo greco, nel libro I della Politica, presenta il nucleo familiare come l’unione di un uomo e di una donna per la generazione e l’educazione dei figli. Questo e la presenza degli schiavi per l’esecuzione dei lavori materiali legati alla sopravvivenza e agli agi, costituiscono gli elementi necessari a formare una comunità autosufficiente. Il concetto di comunità è lo stesso che spiega la nascita delle città: unioni di più famiglie in villaggi e poi di più villaggi in città per migliorare le condizioni di autosufficienza e condividere un modo di vita. Non a caso, il modello di famiglia tradizionale che ci viene imposto arriva dalla Chiesa cattolica, che affonda le sue radici riguardo alle scelte etiche nella filosofia di Aristotele, ripresa da Sant’Agostino.
La famiglia tradizionale, l’immagine comune e popolare del nucleo famigliare, ritrae una coppia di bianchi eterosessuali, legati dal vincolo matrimoniale contratto da giovani, senza troppa differenza né di età né culturale, genitori biologici di un numero non troppo alto di figli sani che vivono tutti insieme in una casa adeguata. Vige una chiara suddivisione delle responsabilità: l’uomo comanda ed è l’unica fonte di sostentamento della famiglia, la donna esegue e si prende cura della casa e dei figli.
In realtà, già nella società occidentale esiste una grandissima quantità di varianti. Partendo dal presupposto che i membri della famiglia convivano (come non sempre accade) e tralasciando il fatto che gli stessi possano venire da panorami culturali diversi (si tratti del paese d’origine, della religione che professano, delle abitudini che seguono), in sociologia sono stati classificati quattro tipi di famiglie.
Il primo tipo è quella coniugale, composta dal/i genitori eterosessuali e dal/i proprio/loro figli, generati o adottati. Questo tipo di famiglia può essere monogama, cioè formata da una coppia, poliginica, cioè formata da un padre e un numero variabile di donne che fanno tutte da madre ai figli, poliandrica, cioè formata da una madre e un numero variabile di uomini che fanno tutti da padre ai figli, o ancora poliginiandrica, cioè formata da più madri e padri conviventi che possono avere in comune i figli oppure no. Esiste un gran numero di modelli di rapporto di questo tipo che va sotto il nome di poliamoria. Conclamati poliamoristi erano ad esempio la scrittrice Virginia Woolf, il filosofo Sartre, l’artista Duchamp. Il secondo tipo di famiglia è quella estesa, formata dal legame di consanguineità, in cui convivono più generazioni (i figli, i genitori, i nonni, gli zii e via dicendo). Si ha poi la famiglia omogenitoriale, composta da genitori omosessuali ed i loro figli (generati o adottati), ed infine quella monogenitoriale, composta da un unico genitore ed i suoi figli (generati o adottati).
Quella studiata in sociologia è però una mera schematizzazione delle tantissime varianti che esistono in Occidente, per non parlare delle infinite possibilità che esistono al mondo.
Anche l’antropologia allarga le sue vedute: secoli di ricerca antropologica sui gruppi domestici e le relazioni di parentela hanno dimostrato che l’ordine sociale può essere perseguito anche e soprattutto tramite modelli alternativi rispetto alla famiglia tradizionale.
Possiamo trovarne un esempio nell’etnia Mosuo, un piccolo gruppo indigeno (40000 anime in tutto) delle zone al confine tra Cina e Tibet. La loro è una società di tipo matriarcale: anche se è l’uomo a detenere il potere politico, sono le donne che guidano la comunità. Alcuni esempi: l’eredità si trasmette attraverso la linea femminile, tutte le decisioni economiche o di carattere sociale vengono affidate alle donne, e il capo di ogni famiglia è una matriarca, la quale detiene un potere assoluto sulle vite degli altri membri: gestisce loro denaro, decide il loro mestiere, guida le loro scelte. Mentre le donne si occupano di tutto, dai lavori di casa al commercio, gli uomini non hanno responsabilità: non lavorano, esistono solamente per il loro ruolo nella riproduzione. La pratica per cui i Mosuo sono più conosciuti è la cosiddetta “visiting relation”: le coppie che generano un figlio non costituiscono una famiglia, non convivono e non si sposano. Il matrimonio tradizionale o il concubinato, infatti, sono inesistenti nella cultura Mosuo. Dei figli si occupano esclusivamente la madre e la sua famiglia estesa: nonni, zii, cugini e via dicendo. L’unione è soltanto sessuale: alla fine del rapporto, l’uomo non resta con la partner incinta, né dopo si occupa del suo bambino: farà da padre a quello di sua sorella, o di sua cugina. In questo modo sia uomini che donne possono ingaggiare relazioni sessuali con tutti i partner che vogliono, solo a scopo riproduttivo e di piacere. Il bambino non riconoscerà la figura di “padre” nel suo padre biologico, ma in uno (o più) dei membri maschi della famiglia della madre. Padre e figlio non saranno però due sconosciuti: anche se l’uomo non sarà presente nella sua vita di ogni giorno, il bambino lo conoscerà alle cerimonie più importanti.
Neanche la psicologia ha trovato un criterio di discrimine nella variabilità strutturale delle famiglie. L’unica condizione per la stabilità di un nucleo familiare, sta nel lavorare in modo più efficiente e con meno conflitto, quindi rispettando la parità dei ruoli e intervenendo direttamente nella vita dei figli tramite un’educazione appropriata e mezzi di comunicazione efficaci. Nulla di tutto ciò richiede la presenza dello schema di famiglia tradizionale.
Il modello culturale, però, rimane quello imposto dalla Chiesa: nascono così diseguaglianze, oppressioni, razzismo. Nonostante il parere di sociologi, psicologi e antropologi, e nonostante tutti noi abbiamo davanti agli occhi l’infinita ricchezza che ci dà la diversità, ancora temiamo ciò che non è omologato.
A scuola si chiede la firma della mamma, negli hotel sono rare le camere per genitori single e figli, un bambino figlio di omosessuali viene emarginato dai compagni e impietosisce i loro genitori. Un padre che vive con sua figlia grande viene scambiato per un pedofilo che ha sposato una ragazza più giovane e lei una sgualdrina che sta con lui solo per i soldi, (stereotipo sbagliato anche nel caso in cui i due fossero veramente coniugi). Esistono sconti per famiglie di tre o quattro (a seconda del numero di figli), ma non per quelle monogenitoriali e nemmeno per quelle estese.
Ancora una volta, siamo schiavi degli schemi sociali e non accettiamo la diversità, giudicandola strana, immorale e quindi pericolosa. Ora parlo a te: se a preoccuparti non è il timore cattolico-conservatore di un rovesciamento dell’etica, ma la felicità delle persone, ecco qua un detto per te: vivi e lascia vivere. Perché la serenità dell’individuo non è direttamente proporzionale alla sua adesione allo stereotipo. Come sempre, bisogna imparare ad accettare, rispettare e accogliere le differenze, tenendosi ben lontani dai pregiudizi.

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Di Eva Mazzone
La violenza è l’espressione dell’aggressività del più forte sul più debole. C’è n’è tanta, di violenza: psicologica, verbale, fisica, diretta, indiretta, c’è sempre stata e sempre ci sarà. Pare che l’uomo non possa fare a meno di esprimere la sua aggressività. Ma, recentemente, sembra che la cosa gli sia sfuggita di mano.
Perché l’uomo ha inventato il terrorismo.
Puntando l’obiettivo sul vecchio continente, è impressionante il numero di attacchi di (presunta) matrice jihadista, dal 2004 ad oggi. L’11 marzo del 2004, a Madrid, dieci attacchi coordinati al sistema ferroviario della città hanno ucciso 191 persone e ne hanno ferite oltre 2000. Un anno dopo, il 7 luglio, una serie di esplosioni ha fatto saltare in aria tre treni della metropolitana e un autobus a Londra. La Francia viene colpita nel marzo 2012, quando in due settimane un attentatore uccide 7 persone. Il 24 maggio, nel museo ebraico di Bruxelles, perdono la vita quattro persone. Sono altre 12 a morire a Parigi, il 7 gennaio 2015, presso la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo. Il 14 febbraio, presso un locale di Copenhagen dove era stato organizzato un convegno sulla libertà d’espressione, irrompe un attentatore armato di pistola. Tre attacchi simultanei hanno luogo nella capitale francese il 13 novembre: il bilancio finale delle vittime è di 137 morti. Di nuovo a Bruxelles, il 22 marzo 2016, tre esplosioni all’aeroporto e alla stazione metro da parte dell’Is uccidono 32 persone, ferendone 300. Il 14 luglio 2016, i jihadisti celebrano il massacro di Nizza, anche se l’uomo che ha ucciso ben 84 persone non sembra avere alcun legame con il terrorismo. Chi aveva aderito all’Isis è invece Mohammed Delel, che ad Ansbach ha ferito 12 persone facendosi esplodere.
Ma come dimenticare l’attentato al museo nazionale del Bardo, o i 20 morti al ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca, o ancora la strage alla marcia pacifista del partito curdo, ad Ankara, le stragi continue in Iraq?
Ma la minaccia più grande forse non è solo il terrorismo in sé, in quanto arma che consente a un gruppo o più di persone di provocare, appunto, terrore nella gente allo scopo di assoggettarla al loro volere, ma più che altro l’ondata di violenza che ne scaturisce: dopo gli attentati, infatti, ogni disagiato mentale con tendenze aggressive è potenzialmente un violento dal momento in cui vede che nel mondo intorno a lui la violenza non è più un tabù, ma qualcosa di lecito.
Ne è un esempio ciò che è avvenuto nella civilissima Monaco di Baviera, dove il 22 luglio il diciottenne Ali Sonboly, tedesco-iraniano, ha fatto fuoco su trentasei persone – uccidendone nove – nel centro commerciale Olympia, ma anche gli episodi di Sagamihar, in Giappone, dove un uomo armato di coltello ha ucciso 19 persone in un centro per disabili, lo Tsukui Yamayuri Garden. E il parroco sgozzato a Rouen, la donna uccisa con un machete a Reutlingen, le tre persone ferite da un diciassettenne afghano a Wurzburg.
Molte, troppe sono le stragi, di matrice terroristica e non. La confusione è inevitabile: nulla è più completamente bianco o completamente nero. Ci sono i kamikaze dell’Isis, i ragazzi che aderiscono all’organizzazione del terrore su internet e quelli che semplicemente ne vengono ispirati e ancora gli squilibrati che non hanno nulla a che fare con il terrorismo.
Sono troppe le varianti, e per questo motivo spesso si cade nell’errore di fare di tutta l’erba un fascio. La realtà è che dietro ogni assassino c’è un mondo di ingiustizie e tormenti, di fede e di disperazione, c’è un’intera storia da tenere in considerazione.
Prendiamo ad esempio Ali Sonboly, il diciottenne che da anni meditava di uccidere tutti i suoi coetanei. In assenza della diagnosi di terrorismo, sono i disturbi psichici del giovane a dare una risposta a tutti i quesiti che sorgono spontanei dopo la notizia della strage. Ma, come scrive la psicologa Donatella Girardi su Il Fatto Quotidiano, “ricorrere alle diagnosi psichiatriche sembra rappresentare la difficoltà culturale di pensare e comprendere i fenomeni di marginalità e violenza”. Il killer, infatti, aveva a lungo subito esperienze di bullismo a scuola, violenze che gli avevano procurato gravi squilibri mentali. "Conosco questo ca**o di tipo, si chiama Ali Sonboly. Era nella mia classe. Facevamo sempre del mobbing contro di lui a scuola. E lui diceva sempre che ci avrebbe uccisi", rivela un suo anonimo ex compagno di classe in un’intervista. Salta agli occhi il quadro della periferia, con le sue diseguaglianze, l’esclusione e la violenza che non viene presa abbastanza in considerazione dagli enti che dovrebbero occuparsi politiche sociali, sanitarie e d’istruzione, al fine di garantire l’integrazione e l’uguaglianza all’interno di ogni nucleo sociale. La soluzione a questo problema sta “nell’investimento per lo sviluppo di una cultura della convivenza democratica e laica che faccia della relazione con la diversità una risorsa”. Al contrario, la paura e l’ignoranza ci portano a considerare l’omicida non come un malato, ma come un “mostro”, che come tale viene disprezzato. La colpa, se proprio dobbiamo cercarla, è di chi non ha prevenuto lo squilibrio, di chi l’ha causato, e di chi non ha provveduto a curarlo. L’assassino è anche vittima, sempre.
Concentriamoci un attimo sui terroristi, i moltissimi ragazzi che si ritrovano intrappolati in una guerra che non è la loro. Quali sono le dinamiche che portano una persona ad aderire alle organizzazioni del terrore, a diventare fanatici estremisti, ad arrivare ad un omicidio-suicidio? Ciò che accomuna tutti loro è il fatto di avere origini straniere, provenire dai paesi del Vicino Oriente o dell’Africa. Sono tutte persone nate o vissute in un paese nella cui cultura non si riconoscono, e dai cui abitanti non vengono accettati. Ma, allo stesso tempo, sono indissolubilmente legati ad un altro paese in cui però non possono vivere oppure non hanno mai vissuto. Si ritrovano quindi senza identità: non sanno chi sono e di conseguenza non riescono a dare uno scopo alla propria vita, un senso. E dove trovano la loro identità? Nella religione del proprio paese di provenienza, in questo caso l’islam, che diventa così forte da tramutarsi in fanatismo e spazzare via tutto il resto.
E quando il terrorismo non c’entra nulla? Qual è la chiave che fa nascere l’idea di una strage nella mente dello squilibrato? L’atmosfera di violenza che respira l’individuo con problemi mentali è la scintilla che lo porta a compiere gesti di assoluta ferocia: prima fra tutte, quella che l’ambiente esterno riversa su di lui, la fonte del suo disturbo. In seguito è la violenza che vede intorno a sé che gli ispira il progetto aggressivo, ed è sempre quella che gli fornisce la rabbia necessaria per metterlo in atto. Quante immagini, video, notizie ingigantite col mero scopo di soddisfare la morbosità umana circolano in rete, in televisione, tra le pagine dei giornali? È chiaro che la violenza viene amplificata dai media, che spesso vanno oltre l’informazione e sfociano nell’involontario fomento dell’aggressività. Ovviamente non si deve ricorrere alla censura dei contenuti più ostici: la prevenzione non vale la libertà. Ma invece di ricorrere a metodi giornalistici di stampo scandalistico, di fare terrorismo psicologico, di indirizzare l’opinione pubblica verso il razzismo (e qui si torna al discorso dell’assassino-vittima), forse sarebbe meglio evidenziare il lato semplicemente sbagliato della violenza. Se si riuscisse a capire che dietro tutta questa violenza non ci sono delle macchine, ma delle persone, degli individui che agiscono sempre a causa di qualcosa, forse ognuno di noi nel suo piccolo potrebbe frenare questo meccanismo di uomini che usano altri uomini contro altri uomini ancora.
In generale, bisognerebbe insegnare la pace, la tolleranza, la non-violenza. E, anche se la morale ce lo impedisce, bisognerebbe imparare a ridicolizzare il fanatismo, il terrorismo, la violenza: le persone hanno bisogno di aiuto, non del nostro odio. Persone che sono soltanto pedine di una enorme scacchiera, e che, dopo una vita di traumi, verranno dimenticate. Ricordiamoci: il fuoco non si spegne col fuoco, ma con l’acqua.