SorrisoDiverso

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Marco riceve una telefonata da sua madre, ma ha fretta di riattaccare, perché è seduto in una sala d’attesa e a momenti inizierà il suo colloquio con un produttore famoso.

Immerso nell’atmosfera seriosa di occasioni formali come quella Marco appare un po’ goffo, ma ogni traccia di impaccio svanisce, quando ha finalmente occasione di entrare nel suo elemento e di parlare di quello che ama: il cinema. L’argomento lo riscuote e lo rinvigorisce: lì non ha incertezze, perché quello è il lavoro che ama. Marco, infatti, è un giovane regista, diplomato da soli due anni, durante i quali ha lavorato instancabilmente a molti progetti, riscontrando anche un discreto successo.

Il punto forte dei suoi lavori non sta tanto in un grande budget, ma nella creatività e nell’originalità delle storie che ha messo su schermo. Il colloquio ha inizio e Marco descrive il suo percorso, parla di tutto ciò che ha realizzato e di quello che spera di poter produrre in futuro. L’entusiasmo con cui argomenta tutto questo, tuttavia, si spegne pian piano, quando realizza che l’esposizione dei suoi sforzi lavorativi, riscuote un’accoglienza tiepida nell’uomo che siede dietro la scrivania.

Marco non ha le carte in regola per passare al livello successivo e ottenere l’attenzione di una grande produzione: non proviene dall’ambiente giusto, non ha le conoscenze né le parentele necessarie; insomma, non può sperare di essere preso in considerazione in un ambiente in cui il discrimine tra chi emerge e chi no non è il talento.

Nemo Propheta è una critica esplicita e senza peli sulla lingua nei confronti di un sistema malfunzionante, incapace di investire sul futuro e sulle capacità di coloro che non hanno la fortuna di avere un posto riservato, nel mondo.

Il dramma e il paradosso di questo racconto si consuma in un brevissimo episodio ed è affidato interamente alla recitazione degli attori, che nello spazio del colloquio di lavoro riescono a trasmettere l’entusiasmo smorzato e la rassegnazione, da un lato, e l’indifferenza e la venalità, dall’altro.

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Valutazione attuale: 4 / 5

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Francesco ripete ogni giorno i passi della sua routine mattutina: acquista il giornale, passeggia, si dirige al parco, si siede sulla stessa panchina e da lì osserva le persone, la vita che si svolge attorno a lui.

Il tempo della sua giornata è scomposto in istanti che sono cloni di quelli precedenti, che li riecheggiano. Meccanismo, questo, che sembra replicarsi, improvvisamente, sulle scene a cui assiste al parco, mentre osserva gli altri: il ragazzo in bicicletta che pedala e svolta l’angolo, per esempio, introduce un ricordo. Francesco torna indietro, ai tempi della sua infanzia, e si rivede piccolo, quando si dirigeva a casa in bici.

Lo stesso accade quando osserva il bambino che gioca a pallone, poco distante, che, guarda caso, si chiama come lui. In fondo non sembra affatto diverso dal ragazzino che era stato lui stesso, quando giocava a calcio da solo, sotto casa sua.

Le storie degli altri, all’improvviso, sembrano sovrapporsi ai frammenti della sua, quasi per effetto di una sorta di furto. Una strana angoscia si insinua nel protagonista, di fronte a queste coincidenze, alla geminazione incontrollata del suo tempo e della sua vita, persino del suo nome.

Il finale resta aperto alle interpretazioni: c’è dell’altro, ma questo altro avviene al di fuori dell’inquadratura.

Il gioco di sovrapposizioni scompone l’unità del racconto e lo ramifica, lo congiunge ad altre storie che si perdono altrove, lì dove lo schermo finisce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il personaggio di Maxim, che dà il titolo al cortometraggio, vive due condizioni tra loro estremamente diverse, ma che hanno il medesimo effetto di ostacolare le sue possibilità di esprimersi: sordità e omosessualità repressa.

Maxim vede molti dei possibili accessi alla vita e alle sue opportunità sbarrati da limitazioni che contribuiscono a fare della sua un’esistenza in bianco e nero. I contorni delle sue giornate si perdono nella ripetizione di pattern sempre uguali e nella solitudine delle stanze vuote.

Le ragioni di questo stallo risiedono, come spesso accade, nell’infanzia e nell’adolescenza: i suoi genitori hanno sempre guidato le scelte di Maxim con un atteggiamento severo ma soprattutto miope. Sono loro a instradare il figlio su un percorso di appiattimento non troppo lontano dall’annullamento vero e proprio, sono loro a dirgli quali colori sono accettabili e dignitosi e quali sono proibiti.

È un giorno qualsiasi quello in cui Maxim intraprende un percorso interiore, tra il ricordo di quelle spinte che hanno dato una certa direzione alla sua vita e l’esigenza di trovare la sua voce nell’universo di silenzio che lo opprime. Finché i colori non gli si rivelano e la rivelazione è sufficiente, perché dopo di essa non si può più pensare di tornare alle vecchie abitudini.

Non è un caso, infine, che con l’apertura verso una vita di possibilità finalmente accessibili, Maxim trovi anche la strada per il dialogo e per la comunicazione con il prossimo.

La colonna sonora accompagna l’intero corso del cortometraggio, senza che venga pronunciata una sola battuta, se non quelle mimate con le labbra o espresse in lingua dei segni; questa scelta corona un progetto pensato per parlare in senso ampio e completo di accessibilità, proponendo, insieme al linguaggio delle immagini, una comunicazione non verbale in musica agli udenti e ai non udenti una comunicazione verbale, affidata al segno.