SorrisoDiverso

Valutazione attuale: 5 / 5

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Una regia e una scrittura firmate da Iole Masucci per 31 settimane, un racconto a più voci portato sullo schermo dalla solida interpretazione di Annalisa Direttore, Andrea De Bruyn e Carmine Borrino. Tre linee narrative indipendenti, tre punti di vista che raccontano la medesima situazione, sviluppata nel periodo di tempo citato dal titolo del corto. Ciascuna storia fa luce su una diversa angolazione della vicenda, ma nessuna è in grado, da sola, di completare il quadro. Questo avviene soltanto al momento della loro sovrapposizione, attraverso un contrappunto condotto sapientemente.

Una donna scende dall’auto con il suo trolley e si avvia verso il cancello di casa. Qualcuno la rincorre e quando lei – ma non lo spettatore – vede di chi si tratta, il suo volto viene attraversato da dolore e angoscia insieme. Ma bisogna fare un passo indietro, a trentuno settimane prima. Giulia è la commessa di una libreria frequentata da Paolo, che la osserva in disparte ma con insistenza e da Flavio, che invece riesce a farsi avanti e conquistarla. Inizia tra loro una relazione che porta, poi, a una convivenza. La loro sintonia sembra perfetta. Qualcosa, tuttavia, interviene nella felicità di Giulia, insidiata continuamente da telefonate mute e regali recapitati senza indicazione del mittente. Paolo le chiede di parlare, insiste nell’offrirle il suo aiuto, ma Giulia lo allontana. Oltre a questo, anche sul fronte della relazione con Flavio si affacciano nubi di tempesta. Giulia non riesce più a disincagliarsi dal pantano della scomoda vicinanza di figure che, da alleate, assumono sempre più le sembianze di oppressori.

Iole Masucci riesce a ideare una formula diretta, mai banale, per affrontare un tema oggi molto discusso: l’abuso spacciato per amore. Lo fa elaborando una trama appesa al filo del dubbio, mediante l’incastro delle esperienze di personaggi il cui ruolo nella storia è inizialmente il mistero che anima un tono narrativo sconfinante nel genere thriller.

Una nota di particolare merito va alla scena finale, forte di una scrittura magistrale ma anche delle performance degli attori, capaci di suggerire le dense implicazioni che passano per uno scambio di sguardi. Una maschera di umanità quasi riesce a far dimenticare allo spettatore che dietro si cela il carnefice e ancora una volta questa illusione riesce a strappare alla vittima l’ultimo, fatale lampo di amore e di indulgenza.

 

 

 

 

 

Valutazione attuale: 5 / 5

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Nel cortometraggio la regia di Antonio Miorin, ben saldata alla scrittura di Iole Masucci, delinea una struttura narrativa elegante, dove i dialoghi rarefatti fanno capolino nel contesto di spazi più ampi, affidati ai gesti, alle espressioni del volto, all’irregolarità dei respiri e ai silenzi.

Su questa falsariga, una punta di colore anima i fondali di tonalità neutra – un tema che pare irradiarsi a partire dal quadro presente nelle prime inquadrature ed estendersi fino all’ultimo fotogramma. Questa guida cromatica nel labirinto dell’inespresso, discreta ma presente – quasi divisiva – comunica con efficacia l’alternanza tra un elemento riconoscibile e un contesto indistinto, che sfugge alle interpretazioni e resta ignoto fino alla fine. Lo stesso vale per l’episodio messo in scena nel cortometraggio: una tappa, lì dove il resto del percorso è sconosciuto.

La storia è quella di Angela e Luca, una coppia che attraversa un momento di difficoltà e infine si decide per una soluzione che pure desta ancora forti dubbi in entrambi. Salgono comunque sull’aereo che li porta verso un’ignota meta all’estero. Da lì, si recano quindi a discutere con un intermediario del contratto di affitto che si apprestano a concludere. Al momento della firma, incontrano la proprietaria e viene chiarito il vero senso di questo accordo.

Luisa Ranieri e Yuliya Mayarchuk regalano allo spettatore un’interpretazione intensa delle due donne su cui si chiude il cortometraggio. Il sorriso che le due si scambiano è il cuore di questa storia, il vero elemento che scioglie il confine di ogni contrasto – cromatico, verbale e contestuale – una connotazione umana universale che non è la curva del ventre materno, ma proprio quella del sorriso. Un gesto che travalica le divisioni e conferisce a tutti gli esseri umani il loro vero e più distintivo tratto naturale. Vincitore dei premi ‘Miglior Sorriso Nascente’ 2021 e ‘Miglior Fotografia’ 2021, L’Affitto è un’opera di esordio che stupisce per il suo sguardo discreto e umano e per la sua narrazione sobria ma emotiva.

 

 

 

 

Valutazione attuale: 4 / 5

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Scritto e diretto da Alice Rotiroti, il cortometraggio si sviluppa attraverso una regia, un montaggio e una colonna sonora che simulano un’andatura intermittente, specie nella prima parte, a riflettere la ricorrenza, non armoniosa ma distorta, di un fenomeno che è anche il tema del cortometraggio: il rapporto tra arte e morte. Tra suggestioni sperimentali che frangono e isolano immagini e suoni, la storia appare sullo schermo con l’aspetto di un mosaico i cui tasselli non compongono solo il racconto, ma una riflessione che si completa soltanto quando l’ultima tessera si unisce alle altre.

Vania è la giovane protagonista di [a-live]. Dopo la morte di sua madre Ulrike si dedica a terminare il saggio incompiuto che la donna stava redigendo sulle vite di grandi artiste morte suicide. La sua riflessione si rivolgeva alla profondità con la quale, tramite l'arte, queste donne seppero addentrarsi in cavità inesplorate del significato della vita, e all’atto consapevole con cui se ne separarono: una stortura, una ripetizione che non è un ritornello, ma è più simile a un disco che si incanta. Agnese Piola offre un’interpretazione sensibile della protagonista del cortometraggio, assorbita dalle sue meditazioni – non solo quelle espresse dalla voce fuori campo, ma specialmente quelle taciute – mentre la documentazione che porta avanti per concludere l’opera la trascina verso la depressione.

Le splendide riprese del piccolo borgo sull’Appennino innestano in questa spirale negativa una sequenza, accompagnata dalla lettura di una lettera che irrompe nitida, lenta e rassicurante a redimere il senso di incompiutezza delle storie di queste artiste – come di Ulrike – dissipando l’illusione di un finale mancato. Alla fine, quella della sua conservazione o meno è solo una delle accezioni di una vita.

Alice Rotiroti orchestra un gioco di gravità e di vuoti, un’oscillazione che riflette altre alternanze di presenza e assenza: il respiro, l’atto artistico e il parto. Ed è forse quest’ultimo il parallelo più appropriato, in questa storia di lutto e di lascito, di una madre e di una figlia, la spiegazione più profonda di questo vuoto evocato, esplorato, e infine attraversato con gratitudine.