SorrisoDiverso

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Nel 1972, una professoressa universitaria di matematica, Maria Silvia Spolato, perde il lavoro e l'affetto dei suoi cari quando pubblicamente dichiara la sua omosessualità durante una manifestazione per i diritti della donna: è la prima in Italia che accade qualcosa di simile. Questa decisione porta, come diretta conseguenza, il completo sconvolgimento della sua vita quotidiana. La regista sceglie di raccontare questa storia attraverso il suo corto per dare, ancora una volta, dignità a una donna che ha sacrificato la propria vita, non solo per avere il coraggio di essere sé stessa senza sotterfugi, ma per muovere le coscienze dell’opinione pubblica, cercando di vincere la ritrosia retrograda di chi non accetta l’omosessualità. Il corto è un tributo a una delle tante figure che, come Maria Silvia, costellano il panorama del progresso sociale: troppo spesso relegate ai margini e dimenticate, sono persone che hanno lottato per la propria e l’altrui emancipazione, trasformando le loro azioni in un esempio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Una donna, in solitudine, si trucca davanti a uno specchio. A un certo punto si accorge però che un bambino la sta osservando in disparte. Dopo lo spavento iniziale lo prega di farle compagnia. In quel preciso instante ha inizio un profondo dialogo che farà capire al pubblico quanto le loro vite siano, in realtà, strettamente collegate. Un tema sociale, quello del corto, trattato dal regista attraverso l’uso di un linguaggio ermetico e poetico, poiché la vicenda è ispirata da un vissuto personale attraverso il quale egli spera di incoraggiare chi vive la stessa situazione. Il confronto tra persone che vivono le medesime esperienze risulta, infatti, molto importante e ancor di più è fondamentale l’aiuto delle associazioni che danno supporto ai malati e alle loro famiglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un corto che tratta l’importante tematica della violenza sulle donne in maniera inedita e delicata. Il mezzo sono i colori della tela di un artista di strada, Sadok, che dalle finestre aperte di una casa assiste alla quotidianità di una donna vittima di violenze, subite dal marito, e decide di aiutarla. La potenza della metafora utilizzata dalla regista è acuminata: le pareti della casa che nascondono il dramma diventano il simbolo tangibile della difficoltà che le vittime di violenza domestica devono affrontare, l’impossibilità di comunicare la loro sofferenza, di denunciare il loro aggressore, il muro che si crea tra loro e il resto del mondo. La finestra, lo spazio incorniciato che permette di vedere la condizione della donna, si fa invece metafora del ruolo che lo schermo, il cinema, può assumere: quello di far conoscere e di informare un mondo troppo spesso all’oscuro. In questo quadro Sadok diventa lo spettatore, il testimone, impotente davanti a ciò che accade, ma che allo stesso tempo non può fingere di non vedere.