SorrisoDiverso

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Pietro Albino Di Pasquale dirige La Panna Cotta e ne scrive la sceneggiatura insieme a Emanuele Palamara, realizzando un cortometraggio che combina il tema della disabilità visiva all’espediente con cui rende le prospettive dei due protagonisti: una videochiamata. Lo spettatore osserva, quindi, gli eventi dal punto di vista di Sergio, ma questo non è del tutto esatto, perché Sergio è un non vedente. Questo divertente gioco di mediazioni – in più di un senso – è solo lo sfondo di questa commedia a tema natalizio. La Panna Cotta è un cortometraggio in cui i mezzi moderni aiutano a esorcizzare la solitudine e superare, grazie a un semplicissimo gesto di solidarietà, i limiti portati dalla disabilità.

Sergio digita un numero telefonico e attende risposta. L’interlocutore è Francesco, un volontario alla sua primissima esperienza – in realtà, precisa, un sostituto – che presta la sua assistenza alle persone non vedenti per qualsiasi genere di supporto necessario. In questo caso, Sergio sta trascorrendo il Natale da solo e ha bisogno di qualche piccola dritta. Non gli dispiace il fatto di non avere nessuno che gira per casa, afferma, è un’occasione per riposarsi e per godersi un bel dolce per conto suo: la panna cotta. Il problema è che ha bisogno di controllare la data di scadenza e poi di essere aiutato con le istruzioni per la preparazione. Tra un’interruzione e l’altra, causate da una connessione che salta spesso, e tra piccoli e grandi malintesi, il cortometraggio procede strappando allo spettatore una risata e mostrando il graduale avvicinamento di Sergio e Francesco, perfetti sconosciuti, ma in fondo già un po’ amici.

Il cortometraggio di Pietro Albino Di Pasquale riesce a trattare i temi della disabilità e della solitudine con ironia, normalizzando le differenze tra i due protagonisti e creando un clima di confidenza, leggerezza e complicità. I due attori, Francesco Eleuteri e Sergio Vexina, assolvono egregiamente al ruolo importante che viene affidato loro: quello di mostrare come tutto questo sia possibile.

Vale la pena di attendere la fine dello scorrimento dei titoli di coda per assistere a un’ultima scena che completa il cortometraggio e scalda il cuore. Il messaggio finale mostra come le differenze non siano più una linea divisiva e possano, invece, diventare punto a metà strada tra gli individui su cui è possibile incontrarsi e stringere legami.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La regia di Roberto Siepi e la sceneggiatura di Roberto Ricci portano sullo schermo un cortometraggio d’azione capace di tenere lo spettatore con il fiato sospeso fino al momento del finale. L’autore costruisce per questa storia una struttura dal ritmo serrato, un susseguirsi avvincente di scene che, tramite l’incastro di prospettive alterne, chiarisce gradualmente la natura degli episodi e accompagna lo spettatore a prendere coscienza di una vicenda agghiacciante ma per nulla lontana dal mondo reale. Nell’arco di questo sviluppo che si proietta verso il precipitare degli eventi, non viene a mancare uno sguardo che si posa con sensibilità sul turbamento psicologico di chi è carnefice degli altri e vittima di sé stesso.

La storia si apre su uno scenario familiare e apparentemente lieto: una mamma chiama sua figlia per fare colazione. Qualcosa però non torna: la donna deve chiamarla più e più volte. Diventa nervosa, la rimprovera, la sollecita a obbedire, mentre la piccola fa resistenza. Non vuole entrare in cucina. La donna che l’aspetta lì, dietro una tavola imbandita non è sua madre e la piccola Letizia vuole tornare a casa sua. Di fronte a quel rifiuto la donna, Giorgia, diventa inquieta. Non capisce come sua figlia possa farle uno scherzo così crudele. Insiste perché la smetta, minaccia punizioni, ma Letizia è irremovibile: vuole andarsene da lì e tornare a casa. Giorgia allora la trascina verso la stanza dove ha già messo in castigo un’altra bambina. Quello scherzo deve finire una volta per tutte e le due piccole dovranno ammettere che lei è la loro mamma. Contemporaneamente due genitori disperati e una squadra di poliziotti indagano sulla scomparsa di due bambine.

L’interpretazione di Greta Colucci, nel ruolo della piccola Letizia, e quella di Barbara Kall, nei panni di Giorgia, riescono a esprimere con estrema efficacia il contrasto di due facce molto diverse della paura e della vulnerabilità. La colonna sonora originale a cura di Fabio Marchionni riesce in pieno nell’impresa di dare voce all’angoscia che tutti i protagonisti sentono crescere, man mano che il cortometraggio prosegue, per ragioni del tutto differenti.

Il cortometraggio affronta due generi di fragilità che cercano di sopravvivere l’una all’altra: quella di chi non è in grado di difendersi e quella di chi è stato accecato dalla sofferenza al punto da non riuscire più a distinguere la verità e, così facendo, si smarrisce in una bella menzogna.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Realizzato in occasione del decimo anniversario della morte di Alda Merini, per farne l’installazione di una mostra alla Milano Art Gallery nel 2020, Io Sono Alda è diretto da Flavia Coffari e scritto da Ugo Cavallo. Gli sforzi congiunti dei due riescono a mettere in scena un ritratto psicologico ed emotivo della poetessa protagonista, attraverso evocazioni oniriche e suggestive metafore visive. Lo sguardo registico di Flavia Coffari tratteggia i contorni di un lucidissimo delirio, necessario a scavalcare le mura del manicomio e la gabbia della parola, per ritrovare la voce poetica in un regno dove viene evocata la dimensione ancestrale del silenzio, del rumore e delle stelle.

Strattonata tra due figure che rappresentano rispettivamente la follia e l’immaginazione, Alda Merini appare allo spettatore come una figura tormentata, colta nel mezzo del suo conflitto. Il suo sguardo traboccante, intelligente e disperato si allunga verso scenari solo sognati che la proiettano in una passeggiata tra la gente in un parco. Braccata da due infermieri, Alda procede adagio, dissemina i suoi averi e i suoi scritti, come fossero fondamentalmente la stessa cosa, tra le persone che incontra per strada – un clochard, una donna che fa jogging, una bambina. Si trascina in un cammino errabondo, solo in apparenza privo di senso, che la conduce, infine, nel luogo in cui per sempre resterà consacrata: nel cuore di un applauso.

Commentato dalle musiche originali di Mirko Boroni, quello compiuto da Alda Merini, nel cortometraggio, è un tragitto che condensa molti significati. È una rappresentazione psicologica che non si tira indietro di fronte alla sfida di mostrare i sintomi della sofferenza e della psicosi, ma che è anche capace di consegnare allo spettatore la rappresentazione di una gioia finale, coronamento di un percorso sofferto: quella dell’amore del pubblico, della realizzazione di un inaspettato contatto con gli altri attraverso il ponte della creatività.

Nella sua brevità, il cortometraggio si pone l’obiettivo ambizioso di portare su schermo gli scorci di un intelletto straordinario e fragile. A sostenere questa impresa c’è Lucia Batassa che con la sua densa interpretazione di un personaggio difficile e ricco di sfaccettature, riesce a mostrare il volto di una donna che cammina quieta e senza incertezze sul confine tra genio e follia.