SorrisoDiverso

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Un Cortometraggio frenetico e coinvolgente, dove a scandire il ritmo è il traffico romano, con le frenate improvvise, gli ingorghi, gli incidenti scansati per un soffio. Saverio Deodato è presente in quasi tutti gli ingranaggi della realizzazione di Capolinea: ne cura regia, scrittura e produzione, per di più è anche l’interprete del protagonista del corto, ruolo per il quale gli viene conferito il riconoscimento come “Miglior Attore” 2021. Una prova che rivela una formidabile capacità di orbitare attorno alla macchina da presa e un talento eclettico per il racconto portato sullo schermo.

Il protagonista del cortometraggio è un tassista alle prese col traffico della capitale. Il monologo con cui si rivolge al passeggero è il sostegno solidissimo di tutte le scene del corto – una riflessione che tocca argomenti disparati, dalla famiglia, al lavoro, alle avventure extraconiugali, all’amore verso la propria città. Il linguaggio con cui il protagonista si svela è diretto, nudo e finanche comico. Con la sua verve trascinante, salta di palo in frasca e ricava dal corso della sua vita scampoli di esperienza che contempla con sentimento dolceamaro mentre li offre all’ascoltatore.

Il viaggio del tassista corre su due piste: in parte sull’asfalto e in parte sul percorso della vita. Un tragitto che include episodi alterni, imprevisti, estemporanei moti d’ira verso il prossimo, a ragione o a torto. Il viaggio è così proiettato sulla meta che diventa un lavoro, una corsa a ostacoli in cui lo sguardo si posa su quello che c’è intorno molto di rado e quasi per caso. Allora il tempo rallenta e assume un significato del tutto diverso. Ma nel momento stesso in cui appare il lampo di una nuova consapevolezza, il viaggio è terminato e si è giunti al capolinea.

Senza il bisogno di ricorrere a pretesti di trama articolati, Saverio Deodato riesce a estrapolare la rosa dei significati del cortometraggio dall’abitacolo di un’automobile, collocando una riflessione profonda in uno spazio familiare. Il suo corto invita lo spettatore a viaggiare non soltanto con il corpo, ma imparare a farlo con lo sguardo e ad accorgersi del resto del mondo fuori dal finestrino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La delicata regia di Antonio Passaro regala allo spettatore un viaggio emozionante percorso di volata, con Baby Bird. In otto minuti di cortometraggio, l’autore condensa i giorni felici di una quotidianità rivivificata dall’affetto e dalla compagnia. Una gioia che il protagonista, il coinvolgente Gerardo Caputo, riscopre dopo averla seppellita sotto strati di solitudine.

Sergio, un anziano cardiopatico, vive da solo e ha le sue abitudini: ogni momento della giornata è un rito seguito con rigore, destinato a ripetersi giorno dopo giorno. Una sera sente un rumore provenire dall’esterno della sua abitazione. Quando si affaccia, vede che probabilmente un gatto ha causato la caduta di un nido. Sergio lascia le cose come stanno e rientra in casa. L’indomani, tuttavia, la curiosità di vedere come si sia evoluta la situazione vince e Sergio esce di nuovo, per scoprire tutte le uova rotte, tranne uno. Toccato dalla scena, lo recupera e crea un nido con vecchi oggetti messi da parte – anche loro riportati per l’occasione a nuova vita – e riprodotto il clima ideale per la cova dell’uovo, lo colloca lì.

Quando il pulcino nasce, l’occhio della cinepresa ne assume la prospettiva, simulando i suoi movimenti mentre l’animaletto accetta il cibo da Sergio, lo insegue per i corridoi della casa e spicca il primo volo. Un invito rivolto allo spettatore a sperimentare un’immedesimazione insolita, ma di immediata efficacia e impatto. La brillante colonna sonora originale di Alfredo Capozzi sostiene questo gioco di identificazione nell’animale e ne riproduce i versi e il modo tutto suo in cui l’uccellino comunica con Sergio. A parte questo, tuttavia, il cortometraggio è muto e questa scelta permette di leggere il rapporto in una prospettiva che esula dal linguaggio umano e che indaga la comprensione reciproca tra uomo e animale.

Baby Bird mostra, senza aver bisogno di parole, che la cura degli altri e la cura di sé spesso, inaspettatamente, coincidono, si richiamano tra loro per effetto di una risonanza che è alla base di qualsiasi genere d’amore e qualsiasi forma di famiglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un cortometraggio che vede Cyro Rossi alla regia, ma anche nelle vesti di interprete di uno dei personaggi della storia, e la presenza importante di Flora Vona che ne è produttrice, attrice protagonista e soggettista. Una collaborazione fortunata, quella di queste due figure che si spendono in così tanti ruoli nella realizzazione del cortometraggio. Il risultato è una nitida incursione nella vita della protagonista, un’esplorazione acuta, capace di carpire dal quotidiano dei profondi tratti di umanità, ma allo stesso tempo l’occhio della cinepresa si dimostra anche in grado di rimanere al di qua della vista e di lasciare spazio al personaggio, perché sia lei, da sola, a perorare la sua causa.

Daniela è un’insegnante delle elementari. Ogni giorno cerca di coniugare il suo lavoro, il ruolo di mamma single di Riccardo e la sua passione per il canto che concretizza esibendosi in qualche locale. Il suo desiderio di rivendicare ciascuno di questi lati di sé le mette contro le madri dei suoi alunni e il preside, risentito per il rifiuto ricevuto quanto l’ha invitata a cena. Tutti sembrano voler incalzare Daniela a fare una scelta, ridimensionare le sue aspettative. La richiamano al buon senso e a inquadrarsi, una volta per tutte, in una categoria riconoscibile: o madre o lavoratrice, o seria o artista, o morigerata oppure, se non lo è, vuol dire che si offre.

Forte e significativa è la scena in cui Daniela parla al telefono con sua madre. L’amore non sempre mostra la strada per la comprensione e forse è quello il più difficile banco di prova per la protagonista, quello che rischia per un istante di mettere a repentaglio la tenacia con cui fino a quel momento ha difeso la sua identità.

Daniela, con il suo rossetto e i suoi vestiti appariscenti è una macchia di colore nel cuore di un mondo rappresentato con una fotografia fredda, un nucleo caldo che forse allude allo stesso “caldo buono” che suo figlio cita quando recita la poesia di Ungaretti. In questo contrasto tra l’essere umano che lotta per affermare il diritto di conservare tutte le sue connotazioni e l’arida ipocrisia di un mondo che gliele nega, risiede l’unico caso in cui il valore disgiuntivo diventa accettabile.